RITRATTI_L'ultima Maestra - Paroldo altra Langa


L'ultima maestra

Sono convinta che per mantenere la vitalità di un piccolo paese sia necessario il rinnovo generazionale e, nondimeno, la qualità dello stesso.

Questo concetto è sempre stato ben chiaro anche alla Maestra Angiolamaria, la quale, come fosse stata una missione, si adoperò ininterrottamente negli anni per onorare quell’appellativo.

Il suo volto, serio e severo al contempo, nascondeva una scorza più tenera ed esternava il senso di responsabilità che si sentiva addosso per via di quel suo amato mestiere che rappresentava in qualche maniera un prolungamento dell’educazione trasmessa dalla famiglia ai bambini di età compresa tra i 6 e gli 11 anni.

La monoclasse

Per di più, nella placida realtà del mio minuto paese, Angiolamaria era consapevole che quando uno scolaretto entrava per la prima volta in aula, con buone probabilità non aveva conosciuto la scuola dell’infanzia (asilo) e, in quanto a lingua, se la cavava decisamente meglio col dialetto piemontese piuttosto che con l’italiano.

Come non bastasse, la monoclasse che trovava ogni giorno in aula raccoglieva tutti i cinque anni e poteva toccare apici di varietà come quando la sua piccola “ciurma” fu composta esattamente da 5 scolari, uno alle prese con la prima elementare, uno con la seconda e così via fino a quello di quinta, che tra l’altro avrebbe dovuto sostenere l’esame di fronte a una commissione esterna.

Un bel da fare, insomma!

Buongiorno Signora Maestra

L’aula, con le larghe finestre che volgevano sulla piazza del paese, era per Angiolamaria ben più di un semplice locale compreso tra quattro muri.

A dare il la ogni giorno – domenica e festivi esclusi – era quel “Buongiorno Signora Maestra”, a cui ella rispondeva con garbatezza, respirando ciò che per lei era un alito vitale. Poi via a gestire uno cadauno, con compiti differenziati a questo o a quell’altro di quei salta-fossi in grembiule. Assai lontano da ogni standardizzazione, ognuno necessitava di proprie attenzioni, di proprie correzioni grammaticali o comportamentali e, talvolta, pure di finire per qualche lungo minuto in castigo dietro alla lavagna.

Così ogni mattina, dalla sua casa posta nella parte alta del paese, scendeva con passo lento e quasi rituale verso la scuola, per far ritorno a fine mattinata, in maniera altrettanto pacata, assorta come sempre tra imperscrutabili pensieri. Il tragitto non scartava di un passo e l’incedere era quello di una persona distinta e instancabile.

A casa l’attendevano uno o due gatti: conduceva una vita solitaria, facendo scrigno di quel suo carattere introverso, seppur tale da non intaccare un’educata cordialità.

Non più d’un paio di volte al mese scendeva a Ceva appositamente per fare spesa in un negozio di alimentari e generi per la casa, mettendosi al volante della sua 112 color arancio, sempre tenuta a lucido. E, in via eccezionale, durante le vacanze estive faceva invito agli scolari – non più d’uno ogni volta, aspettando il proprio turno – di poterla accompagnare in questo fabbisogno che, manco a dirlo, assumeva le sembianze di un rito, calcolato, ordinato, nudo di ogni inutile superfluo tanto che anche allo scorrere del tempo pareva estraneo, come la trama che accompagnava il suo vivere.

Dopo l’ultima campanella

Quindi venne il pensionamento, la triste chiusura della scuola che scese alla soglia di tre soli scolari, il venir meno di ciò che la faceva sentire viva. Ma ricordo bene che qualche ex alunno, di qualunque età, andava di tanto in tanto a bussare alla sua porta, e veniva accolto come fosse stato il barone di qualche importante e lontano regno giunto in visita. Veniva fatto accomodare al primo piano e, mentre si sedeva con rispetto, lei ancora in piedi serviva sul tavolo un vassoio assortito di prelibati cioccolatini e chiedeva cosa potesse preparare: un caffè o un bicchiere di aranciata, the, gassosa, che teneva nella dispensa come chi è in attesa di qualcuno che non sa quando ma ha la certezza che verrà.

Dopodiché anch’ella si sedeva, mentre il suo volto si apriva come un sipario lasciando spazio a espressioni malleabili e sorridenti, lontane da quel rigore scolastico. E iniziava, senza fretta, a informarsi con discrezione sulla vita dell’ospite: qualora costui fosse ancora alle prese con gli studi, assumeva il portamento di chi si accinge a trattare un argomento della massima serietà quindi domandava come avesse reputato i suoi insegnamenti a fronte degli anni successivi e nei confronti di studenti provenienti da scuole di altri paesi.

Poi, quando l’ospite si apprestava a rincasare, lo accompagnava alla porta, nutrendo nello sguardo un mal celato desiderio che restasse ancora un poco.

E così furono gli anni a venire per quella presenza silenziosa e garbata, che vedevo muoversi in punta di piedi quasi a non farsi notare, col passo di chi non teme il tempo ma contestualmente vorrebbe forse sfuggirlo sentendosene soggiogato. Una tal riservatezza esistenziale che un giorno i paesani, impensieriti dal non averla vista più, l’andarono a cercare, trovandola nel letto, assopita in un sonno eterno, con una sorta di sorriso in volto: chissà dinnanzi a quale classe di alunni si era vista in quell’ultimo dolce pensiero…

Ritratto scritto per Lena da Paolo Castellino